FRANZ KAFKA

IL PROCESSO


1.

Joseph K, un funzionario di banca che vive in una pensione e la cui esistenza è infinitamente abitudinaria - lavoro, passeggiata serale, due ore in birreria, una volta la settimana da una prostituta, raramente a cena nella villa del direttore - viene arrestato a piede libero e sottoposto ad un processo di cui ignora le imputazioni. Sapendosi innocente, egli si ribella all'arbitrio ripromettendosi di far valere le sue ragioni di fronte al Tribunale. Viene però a confrontarsi con un'Organizzazione misteriosa, gerarchica, inattingibile. Le udienze che si susseguono lo pongono di fronte al fatto che ciò che a lui - imputato - si richiede è l'assoggettamento passivo alla Legge, i cui rappresentanti - i Giudici - sono inarrivabili. Egli cerca in ogni modo, attraverso gli avvocati e i mestieranti che frequentano il Tribunale, di incidere su di un procedimento giudiziario che lentamente volge verso la condanna. Alla fine, preda di un'imprevedibile rassegnazione, attende i suoi giustizieri che lo accoltellano "come un cane" in una cava fuori della città.

La trama del romanzo, nota a tutti, rende ben poco conto di un testo complesso, popolato di personaggi e di situazioni surreali. L'equivocità simbolica del testo, che è il carattere comune di tutte le grandi opere letterarie, che comportano molteplici piani di lettura, ha dato luogo alle più varie interpretazioni, da quelle esistenziali a quelle psicoanalitiche, da quelle simboliche a quelle sociologiche. Comune a tutte le interpretazioni è il contenuto manifesto del romanzo: il rapporto conflittuale tra il singolo individuo e la Legge che lo sovrasta. La difficoltà sta nel decifrare il significato della Legge che trascende l'individuo. Si tratta di un Ordine cosmico, del Fato, di Dio, del Potere, di una Burocrazia disumana, di una Società alienata, ecc.?

Non intendo fornire un'interpretazione del tutto nuova. Mi preme sottolineare un aspetto che, finora, non mi sembra sia stato sufficientemente valorizzato: l'ambivalenza di Joseph K. in rapporto alla Legge e alla colpa imputata, protestata per un verso, riconosciuta per un altro.

Quando egli viene arrestato e messo al corrente che, a suo carico, è stato avviato un processo, la reazione è quella di un innocente ingiustamente perseguito: una reazione nella quale si mescolano la sorpresa, l'incredulità, l'indignazione e la volontà di lottare per avere giustizia. All'ispettore che gli comunica del procedimento K. dice: "sono accusato, ma non riesco a trovare la minima colpa di cui mi si possa accusare". Nel corso della prima udienza, denuncia animosamente l'abuso che ha subito: ""Non c'è dubbio", disse K. a voce molto bassa, poiché l'attenzione tesa dell'intera assemblea gli dava piacere, quel silenzio era attraversato da un ronzio più eccitante del plauso più entusiasta, "non c'è dubbio che dietro tutte le manifestazioni di questo tribunale, nel caso mio quindi dietro l'arresto e l'udienza odierna, stia una grossa organizzazione. Un'organizzazione che non solo dà lavoro a guardie corruttibili, ispettori ridicoli e giudici istruttori, nel migliore dei casi, modesti, ma mantiene anche magistrati di alto e altissimo grado, con l'innumerevole, inevitabile seguito di uscieri, scrivani, gendarmi e altri avventizi, magari persino carnefici, non temo di pronunciare la parola. E il senso di questa grande organizzazione, signori? Consiste nel fare arrestare degli innocenti e istruire a loro carico un procedimento assurdo e per lo più, come nel caso mio, infruttuoso". Opporsi a una siffatta organizzazione, significa per Joseph K. non solo difendere se stesso ma tutti coloro che subiscono analoghi abusi: ""Quello che è successo a me", continuò K. a voce un po' più bassa e cercando sempre di catturare le facce della prima fila, il che conferiva al suo discorso un tono piuttosto svagato, "quello che è successo a me, non è che un caso singolo e come tale di poca importanza, poiché io non lo prendo molto sul serio, ma è indicativo di un modo di procedere che viene applicato a danno di molti. Io qui difendo la loro causa, non la mia"". Nel corso del settimo capitolo, egli avverte il bisogno di rassicurarsi sulla sua innocenza: "Prima di tutto, se si voleva ottenere qualcosa, era necessario eliminare fin dall'inizio ogni pensiero di una possibile colpa. Non c'era nessuna colpa". Di fronte alla domanda diretta di un frequentatore del Tribunale, un mediocre pittore, al quale si rivolge per un aiuto, la rivendicazione d'innocenza è ancora assoluta: ""Lei è innocente?", chiese. "Sì", disse K. Fu addirittura con gioia che diede risposta a questa domanda, soprattutto perché quella risposta era diretta a un privato, e non comportava quindi nessuna responsabilità. Nessuno gli aveva ancora rivolto una domanda così esplicita. Per assaporare questa gioia, aggiunse: "Sono del tutto innocente"". Anche nel confronto con il sacerdote nel Duomo (capitolo 9), quella convinzione persiste, nonostante la previsione di un esito negativo del processo: ""Come immagini che andrà a finire?" chiese il sacerdote. "Prima pensavo che sarebbe finito bene", disse K., "adesso io stesso ho qualche dubbio. Non so come finirà. Tu lo sai?". "No", disse il sacerdote, "ma temo che finirà male. Sei ritenuto colpevole. Il tuo processo non andrà forse neppure oltre un tribunale di grado inferiore. Almeno per il momento, la tua colpevolezza si dà per dimostrata". "Ma io non sono colpevole", disse K., "è un errore. Come può mai essere colpevole un uomo? E qui siamo tutti uomini, l'uno come l'altro"".

Alla luce di questa rivendicazione d'innocenza, l'Organizzazione della Giustizia, che Joseph K denuncia fin dalla prima udienza e la cui struttura scopre progressivamente, ha un carattere arbitrario, misterioso, e persecutorio. Essa risiede in fatiscenti solai, si articola sulla base di una gerarchica estremamente complessa ("La gerarchia, i gradi del tribunale erano infiniti, sfuggivano persino alla comprensione degli addetti"), agisce in virtù del rapporto tra Giudici di alto grado e avvocati "superiori" che nessuno conosce. Tutta l'attività giudiziaria si svolge dunque al di sopra dei soggetti imputati. Che, però, nonostante questo, non si tratti di un'istituzione meramente repressiva è attestato da ciò che ne dice una delle guardie mandate ad arrestare Joseph K.: "Le nostre autorità, per quanto le conosco, e conosco solo i gradi più bassi, non è che cerchino la colpa nella popolazione, ma, come è detto nella legge, vengono attratte dalla colpa e devono mandare noi guardie. Questa è legge".

Se l'Organizzazione è attratta dalla colpa e non può fare a meno d'intervenire, ciò significa che la colpa, nonché conseguenza di una valutazione arbitraria, esiste realmente. Dove collocarla se non nel profondo dell'anima umana? Di fatto, Joseph K., dopo essere stato arrestato, denuncia se stesso in virtù di un'affermazione sorprendente che ha il significato di un lapsus. Discutendo con la signora Grubar che lo ospita, di fronte al giudizio moralistico che questa esprime nei confronti dei comportamenti "leggeri" della signorina Bürstner, un'altra ospite, e al suo intento di richiamarla all'ordine in nome della rispettabilità della casa, egli esclama: ""La pulizia!.. se lei vuol mantenere pulita la pensione, il primo che deve mandar via sono io"". La denuncia è ripetuta implicitamente nel capitolo finale, quando Joseph K. è già nelle mani dei suoi carnefici: "Ho sempre voluto allungare venti mani sul mondo e per di più a scopi non sempre lodevoli. Non era giusto. Dovrei far vedere, ora, che nemmeno un anno di processo mi ha potuto insegnare qualcosa? Dovrò andarmene come un tardo a capire?" Dunque egli ha "capito" e, in nome di questo, accetta la condanna a morte. Ma di cosa è colpevole?

A riguardo, il testo è fuorviante. L'allungare le mani sul mondo per scopi non sempre lodevoli, infatti, sembra fare riferimento solo all'avidità sessuale. Joseph K. di fatto non riesce a resistere alla smania di conquistare qualunque donna con cui viene a contatto: "aggredisce" la signorina Bürstner nella sua camera (""Vengo", disse K., corse avanti, l'afferrò, la baciò sulla bocca e poi su tutto il viso, come un animale assetato che si getta con la lingua sulla sorgente finalmente scovata. Alla fine la baciò sul collo, alla gola, e lì tenne a lungo le labbra"); seduce la moglie dell'usciere del Tribunale ("Quella donna lo attraeva davvero, per quanto ci pensasse non trovò un motivo valido per non dover cedere alla tentazione. Senza sforzo respinse l'obiezione balenatagli che la donna lo accalappiasse per conto del tribunale. In che modo poteva accalappiarlo? Non era forse ancora abbastanza libero da potere subito mandare in frantumi l'intero tribunale, o almeno quella parte che aveva a che fare con lui? Non poteva avere questo minimo di fiducia in sé? E l'offerta di aiuto della donna suonava sincera e forse non priva di utilità. E forse non c'era vendetta migliore nei confronti del giudice istruttore e del suo seguito che portargli via quella donna e prenderla per sé. Allora sarebbe potuto anche succedere che il giudice, a notte fonda, dopo avere faticosamente lavorato a stendere rapporti menzogneri su K., trovasse vuoto il letto della donna. E vuoto perché lei apparteneva a K., perché quella donna alla finestra, quel corpo florido, flessuoso, caldo, nell'abito scuro di stoffa rozza e pesante, apparteneva solo e soltanto a K."); intreccia seduta stante una tresca con la fantesca dell'avvocato da cui lo ha condotto lo zio al punto che questi lo rimrpovera apsramente ("Ti rintani con una piccola sudiciona, che per giunta è chiaramente l'amica dell'avvocato, e rimani via per ore. Non cerchi nemmeno un pretesto, non nascondi niente, no, fai tutto allo scoperto, corri da lei e ci resti").

Valorizzare questo aspetto, anche se viene ricondotto al consueto Edipo, è però del tutto errato. Di fatto, la colpa in questione è molto più radicale e sottile. I rapporti strumentali con le donne sono solo l'indizio di un'esperienza soggettiva coartata emotivamente e affettivamente sterilizzata. Cristallizzato in un modo di essere medio-borghese, formalmente ineccepibile, Joseph K. è un falso Sé, una maschera che si realizza solo nei rapporti burocratici di lavoro e, per il resto, non intrattiene alcuna relazione significativa con il mondo umano. La sua "colpa", dunque è l'isolamento emozionale, che nega e mortifica la relazione con l'Altro, e in conseguenza del quale quel mondo diventa un mondo di manichini, che egli nel suo intimo disprezza.

L'incoercibile avidità sessuale è solo l'indizio compensativo di un regime di vita del genere, l'espressione dell'unica pulsione che si sottrae all'ipercontrollo e veicola un bisogno di contatto vivo con l'altro.

Che questo sia vero, si ricava confrontando lo sfondo sociale del primo e dell'ultimo capitolo. Nel primo capitolo, l'irruzione delle guardie nell'abitazione di Joseph K. anima la curiosità dei dirimpettai, che appaiono come manichini interessati solo a frugare nei fatti altrui: "Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato. La cuoca della signora Grubach, la sua affittacamere, che ogni giorno verso le otto gli portava la colazione, quella volta non venne. Non era mai successo prima. K. aspettò ancora un poco, guardò dal suo cuscino la vecchia che abitava di fronte e lo stava osservando con una curiosità del tutto insolita per lei, ma poi, stupito e affamato insieme, suonò il campanello"; "Dalla finestra aperta si vedeva di nuovo la vecchia che, con una curiosità veramente senile, si era adesso spostata alla finestra dirimpetto per continuare a vedere ogni cosa"; " Andò avanti e indietro un paio di volte nello spazio sgombro della stanza, vide di fronte la vecchia che aveva trascinato alla finestra un uomo molto più vecchio ancora e lo teneva abbracciato"; "Se non gli avessero creduto, cosa comprensibile in un caso come questo, poteva chiamare come testimone la signora Grubach, o anche i due vecchi di fronte, che ora si stavano certo spostando alla finestra dirimpetto"; " Alla finestra di fronte c'erano di nuovo i due vecchi, ma la compagnia si era accresciuta, perché dietro di loro c'era un uomo molto più alto, con una camicia aperta sul petto, che tirava e rigirava fra le dita una barbetta rossa"; ""Di là ci sono anche degli spettatori", gridò K. rivolto all'ispettore, e indicò fuori con l'indice. "Via di lì", gridò poi dall'altra parte della strada. I tre si ritrassero subito di qualche passo, i due vecchi addirittura dietro l'uomo che li copriva con il suo grosso corpo e, a giudicare dai movimenti della bocca, diceva qualcosa che la distanza rendeva incomprensibile. Ma non scomparvero del tutto, sembravano piuttosto aspettare il momento di potersi riaccostare inosservati alla finestra. "Razza d'indiscreti, maleducati", disse K., ritirandosi nella stanza"; "Kullich all'improvviso indicò il portone di fronte in cui era appena apparso l'uomo alto con la barbetta bionda che, un po' imbarazzato, in un primo momento, di mostrarsi ora in tutta la sua statura, indietreggiò al muro e vi si appoggiò. I vecchi dovevano essere ancora sulle scale. K. s'irritò che Kullich gli facesse notare l'uomo che lui stesso aveva già visto prima, che anzi aveva addirittura aspettato".

Nell'ultimo capitolo, pochi istanti prima di essere ucciso, Joseph K. vede in lontananza un altro scenario: "Come una luce che si accenda improvvisa, si spalancarono le imposte di una finestra, un uomo, debole e sottile per la distanza e l'altezza, si sporse d'un tratto e tese le braccia ancora più in fuori. Chi era? Un amico? Una persona buona? Uno che partecipava? Uno che voleva aiutare? Era uno solo? Erano tutti? C'era ancora un aiuto?"

Tra questi due fondali sociali, l'uno attestante l'intollerabile peso di una relazione sociale fondata solo sull'essere esposti allo sguardo di estranei, l'altro allusivo alla pietas e alla solidarietà, si consuma il dramma di Joseph K. Il processo, nonostante la sua arbitrarietà e le modalità di svolgimento, è dunque un rito d'iniziazione che porta il protagonista da un isolamento sociale vissuto come stato proprio dell'essere all'infinita solitudine del condannato che avverte prepotente il bisogno di una relazione d'aiuto e di solidarietà.

Si tratta di un rito d'iniziazione paradossale, poiché esso avviene proprio in virtù di un'istituzione la cui rozzezza giustifica il ritiro emotivo dal mondo del protagonista e la sua estraneazione mascherata dal falso Sé.

La rottura del rapporto con l'altro è da ricondurre dunque ad una colpa dell'io o del mondo? La catarsi finale getta la croce sull'io, la vibrata protesta originaria di Joseph K. sul mondo. L'ambivalenza risulta insolubile.

2.

Le valenze psicoanalitiche dell'opera di Kafka sono state più volte rilevate. Ne Il Processo si da però una sottigliezza psicologica che eccede il sapere analitico. Tale finezza sta nell'intuizione per cui, allorchè si avvia, in una remota regione dell'anima, un conflitto psicodinamico si danno sempre due imputati: il soggetto e il mondo esterno. Non meno notevole è l'intuizione per cui il processo esita sempre in un verdetto che implica la colpa di entrambi. Incolpare e sentirsi in colpa sono, dunque, le due facce di una stessa medaglia.

Joseph K si ritiene, nello stesso tempo, innocente e indegno. Nella misura in cui, si considera innocente il processo è un arbitrio, un'ingiustizia e una persecuzione; nella misura in cui si giudica indegno, il Tribunale non può non essere attratto dalla sua colpa.

Si tratta di una verità psicodinamica che dovrebbe essere acquisita pienamente per valutare il paradosso dei sensi di colpa psicopatologici che implicano sempre una protesta rabbiosa contro qualcuno (o al limite contro tutto il mondo) e il dubbio che questa protesta tenda solo a coprire e a mascherare l'indegnità del soggetto.

Il significato di questo paradosso non è misterioso. Laddove la relazione tra l'Io e l'Altro va incontro ad un conflitto, il bisogno di socialità e quello d'individuazione si scindono. Questa scissione evoca sempre il riferimento alla colpa dell'Altro, che causa il ritiro emozionale, e alla colpa dell'Io, che eccede nella sua rabbia. L'isolamento estingue la percezione della rabbia, ma, in conseguenza di esso, si realizza un'esistenza formalmente irreprensibile, ma sottesa da un senso di vuoto e d'insignificanza. Il falso Sè è l'espressione di questa dinamica, che estingue la possibilità del conflitto, ma al prezzo della mortificazione di qualunque relazione significativa.

Uno dei possibili sviluppi di questa situazione - ed è questa un'intuizione prodigiosa di Kafka - è la persecuzione, vale a dire il riattivarsi della relazione con l'Altro su di un registro angoscioso, epperò emotivamente intenso.

In ogni vissuto persecutorio, di fatto, si ripropone l'ambivalenza illustrata nel romanzo. L'altro che perseguita è cattivo o le sue intenzioni sono imperscrutabilmente benevoli? E l'Io perseguitato è una vittima o non paga il prezzo delle sue colpe, esasperate dal fatto di odiare coloro che cercano di aiutarlo, di proteggerlo e di "umanizzarlo"?

Come La metamorfosi, anche Il processo è la trasposizione lettararia di una catastrofe psicopatologica, di una crisi che interviene a cielo sereno, ma sulla base di un conflitto che ha superato una soglia critica. Kafka ha sperimentato in prima persona situazioni del genere. I suoi scritti attestano che egli non ha mai colto il potenziale evolutivo intrinseco alle crisi che pongono in gioco il falso Sé. Ciononostante, la sua opera, letta in termini psicodinamici, è preziosa più di tanta letteratura specialistica, compresa quella psicoanalitica.